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Rutelli: «La piattaforma ideale del dialogo è l’Italia. Serve il soft power per gestire i problemi»

di Paola Pica

Rutelli: Mattarella in impermeabile a Parigi un esempio. Il made in Italy e la nostra diplomazia culturale hanno una forza universale
Francesco Rutelli

Due volte sindaco di Roma, vicepremier e ministro, senatore ed europarlamentare, presidente della Bicamerale di controllo dell’Intelligence, Commissario straordinario di governo per il Grande Giubileo del 2000. Dopo aver lasciato la politica attiva e gli incarichi istituzionali, Francesco Rutelli, oggi tra le altre cose presidente dell’Anica, l’Associazione tra le industrie del cinema e dell’audiovisivo, ha continuato a occuparsi di ambiente, cultura, tecnologia e relazioni internazionali. Nel 2020 ha lanciato a Venezia il Soft power club, il forum per il «nuovo multilateralismo» diventando una figura di riferimento tra chi, nel mondo, promuove il «potere della persuasione».

Persuadere o sparare. Il mondo ha scelto: la spesa in armamenti nel G20 prepara il nuovo record storico, dopo i massimi di 2,4 trilioni di dollari raggiunti nel 2023.

«Il sospetto è che si parli di buone intenzioni inutili? L’idea di Joe Nye che ha introdotto il soft power dopo la caduta del sistema sovietico, all’inizio di una globalizzazione dominata dall’Occidente, ci interpella ancor più oggi nella stagione di conflittualità senza gerarchie dominanti. Soft power non significa disarmo».

In che senso?

«È impensabile che l’uso della forza, incluso il suo dispiegamento con finalità solo dissuasive, esca dall’orizzonte umano. Ma senza dialogo, e compromessi, rischia di realizzarsi l’ultima profezia di Henry Kissinger sulla possibilità che con l’intelligenza artificiale più armi nucleari finiscano fuori controllo. Una de-escalation è cruciale».

Giunta alla sua quinta edizione la Soft power conference di fine agosto (26-27) sull’Isola di San Giorgio a Venezia vede, accanto a personalità di tutto il mondo, e all’Istituto europeo dei democratici, una folta rappresentanza di maggioranza e governo italiano con i ministri Tajani, Pichetto Fratin, Sangiuliano, Urso e di esponenti della cultura come Alessandro Giuli e Giordano Bruno Guerri. Un segnale?

«Certamente l’Italia, per storia, valori, cultura è una piattaforma ideale di dialogo. Se a Venezia si celebrano i 700 anni di Marco Polo, e abbiamo richiamato gli 800 anni dell’incontro visionario tra San Francesco e il Sultano d’Egitto, e Zuckerberg vuole continuamente legare le attività di Meta alle esperienze di Augusto, l’attualità è potente: il made in Italy e la nostra diplomazia culturale hanno una forza universale».

Qual è l’agenda della conferenza?

«Tre sessioni: il contrasto della disinformazione distruttiva, come affrontare le crisi climatiche con il consenso della cittadinanza, e non dall’alto in basso, e il soft power dell’Italia. Tutti con protagonisti di grande valore».

E l’Europa?

«L’Europa è interpellata più che mai. Tra Cina — che corre con 5-7 anni di anticipo su tecnologie green e Terre rare, e Stati Uniti che investono due trilioni di dollari nelle transizioni — l’Ue non può essere solo campione mondiale della regolazione. Chiediamoci quali industrie e quale lavoro vogliamo nel nostro continente».

Possiamo citare un caso in cui il soft power ha avuto la meglio?

«Vuole un esempio piccolo, ma significativo? Se Macron avesse rinunciato alla sua tribuna protettiva dalla pioggia per l’apertura dei Giochi olimpici — mentre i rappresentanti del mondo intero erano sotto il diluvio — avrebbe evitato un display di insensibilità e non condivisione. La prova di umiltà di Sergio Mattarella con l’impermeabilino di plastica è stata invece un esercizio di soft power più efficace di mille conferenze».

Giusto come sostiene Krugman tassare i ricchi del mondo?

«Se guardiamo ai 3 mila miliardi di dollari della capitalizzazione di Nvidia, che produce chip per l’intelligenza artificiale, ci rendiamo conto che molte ricette economiche poggiano su basi novecentesche. I privati, a partire dai più ricchi, vanno vincolati e incentivati a investire nella transizione green».

Quali sono i rischi della disinformazione in rete?

«Non ci può essere democrazia nel XXI secolo se il dominio degli algoritmi si traduce in delirio social, deepfake, campagne artificiali di demolizione del diverso da noi. Il risultato è anche nell’astensione di massa. Sono sorpreso dell’indifferenza di troppi leader politici rispetto a queste priorità esistenziali per le democrazie».

Esercitare l’arte del compromesso, come lei si propone, non è fare politica?

«La polarizzazione sistemica può premiare, nel breve periodo. Ma nel lungo periodo è premiato chi trova una sintesi. In avanti».

In avanti… ci vuole un po’ di soft power per ricostruire i moderati in Italia?

«Forse sì. Ma anche in questo caso, per aggregare i riformatori non massimalisti, ci vuole chi ha la pazienza e la visione per aggregare, e pure chi sia disponibile ad aggregarsi…».

E ancora più avanti, di lei si parla anche come «riserva della Repubblica» che può guardare al Colle…

«Sono fuori dalla politica da più di un decennio. Cerco di contribuire su diversi fronti; la cosa più importante credo sia aiutare a formare nuove generazioni di giovani competenti e appassionati».

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